Sala Ovale: USA 2012

6 novembre 2012

PARTE CON L'EDITORIALE DEL MATZ LA LUNGA GIORNATA DI USA 2012, LA GIORNATA DELLE PRESIDENZIALI AMERICANE.
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Con ogni probabilità, comunque vadano le elezioni americane di ogg, Barack Obama sarà il primo presidente della modernità a essere rieletto con un margine inferiore sul rivale rispetto alla sua prima volta, nel 2008. Quattro anni fa ricordiamo tutti le folle in delirio, le lacrime su quel prato immenso di Chicago mentre la Cnn mandava in sovrimpressione l'annuncio che lui, il giovane senatore dell'Illinois, era stato eletto quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti d'America. Di tempo ne è passato da allora, il sogno ha ben presto lasciato spazio alla delusione. La verve obamiana si è ingrigita, è diventata retorica spicciola. Oggi il presidente che sembrava il Messia calato sulla Terra rischia di perdere la Casa Bianca, lasciandola a un miliardario mormone che in altri tempi non avrebbe neppure potuto immaginare di giocarsi l'elezione alla più importante carica politica che ci sia al mondo. Mitt Romney è un manager freddo del Michigan trapiantato in Massachusetts, un signore che non scalda i cuori né suscita particolari emozioni. Non è Marco Rubio, l'enfant prodige del Grand Old Party che si è ritagliato uno spazio sempre più importante all'interno del partito. Non è Chris Christie, l'enorme, popolarissimo e simpaticissimo governatore del New Jersey. Non è neppure Jeb Bush, l'unico che – così dicono i bene informati – avrebbe fatto perdere il sonno a Barack Obama. Romney ha vinto le primarie perché era il meno peggio tra i contendenti in campo: Rick Santorum e Newt Gingrich erano qualcosa di terribile, mentre il vegliardo Ron Paul era lì a portare avanti la battaglia libertaria con il suo alone di romanticismo d'antan. Eppure, dopo il dibattito di Denver, il mormone ha recuperato gran parte dello svantaggio che aveva rispetto al presidente uscente. Quella sera ha trionfato, facendo apparire Obama vecchio, superato, incapace di replicare. E anche i dibattiti successivi – pur vinti dall'incumbent – non hanno rovinato il cosiddetto momentum romneyano. La gara è tosta, i due sono gomito a gomito. Anzi, secondo i sondaggi, nel voto popolare potrebbe pure spuntarla il repubblicano. Il problema è che in America conta il collegio, lo stato incerto, il battleground: è lì che si decide la partita. E qui, per Romney, sono dolori. Senza Ohio il Gop non si prende la Casa Bianca, dice la storia. E l'Ohio sembra essere destinato a tuffarsi nelle braccia do Obama, checché ne dica Karl Rove, convintissimo che alla fine l'ex governatore del Massachusetts vincerà le elezioni. A Barack basta poco, pochissimo per spuntarla: basta tenersi l'Ohio o la coppia Wisconsin-Iowa. Non serve molto. Il suo sfidante, invece, è obbligato a recuperare il terreno perso nel 2008 e ad aggiungere qualcosa in più. Ma il tempo stringe, e la missione sembra sempre più disperata. D'altronde, gli americani misericordiosi concedono quasi sempre una seconda chance. Solo con Jimmy Carter non l'hanno fatto, preferendogli Ronald Reagan. Scelta obbligata, dal momento che mentre il presidente democratico parlava di diritti umani, l'Ambasciata di Washington a Teheran con i suoi funzionari era nelle mani dei pasdaran. L'altra eccezione è rappresentata da George H.W. Bush, nel 1992. Ma in questo caso non fu colpa sua: Ross Perot, terzo incomodo, aiutò (e non poco) Bill Clinton a trionfare.

1 commenti:

Anonimo ha detto...

Racconta vittorio zucconi che Obama alle scorse elezioni curò a tal punto l marketing elettorale che pochi minuti dopo l' annuncio ufficiale della sua elzione mandò una mail a ogni singolo sostenitore per ringraziarlo.
pare che la moglie di zucconi avesse dato i riferimenti del marito e 3 minuti dopo la sua elezione , orario dimostrabile tramite il timbro elettronico, zucconi avesse ricevuto questa mail
Ale