Effetto Fukushima

27 aprile 2011

Qualche settimana fa, Margherita Hack scriveva che se i primitivi avessero deciso di non procurarsi più il fuoco dopo essersi inevitabilmente scottati la prima volta, noi saremmo ancora all’età della pietra. Con i dovuti paragoni, sosteneva l’astrofisica, lo stesso discorso vale per il nucleare. Se decidiamo di non provare a sfruttare questo tipo di energia, rimarremo per sempre legati ai barili di petrolio in rapido esaurimento. Premessa d’obbligo: chi scrive questo post è favorevole al nucleare. Non lo è per motivi politici (il tema, come dimostrato con l’esempio-Hack o come lo dimostrano gli esempi di Veronesi e Giovanni Sartori, è trasversale), bensì per puro e semplice pragmatismo.

Oggi vi è paura, come è normale che sia. Fukushima è lì a dimostrare che i rischi ci sono, che avere un reattore in fibrillazione non è proprio il massimo. Eppure, basterebbe soffermarsi a riflettere su alcuni fattori tutt’altro che di poco conto. Innanzitutto, quello giapponese è un disastro naturale e non nucleare: non è che improvvisamente i reattori della centrale in questione hanno iniziato a fare le bizze. No, qui si parla di uno dei più violenti terremoti degli ultimi tre secoli seguito da uno tsunami di proporzioni bibliche. Non a caso, e va sottolineato in grassetto, di tutte le centrali nucleari nipponiche, oggi parliamo di situazione critica solamente per una di queste. Segno tangibile che tutte le altre hanno retto all’Apocalisse. Dato da non trascurare. Seconda considerazione: la centrale era vecchia, la costruzione risale infatti al 1971. Quarant’anni. Generazioni tecnologiche diversissime. Quarant’anni che valgono come quaranta secoli, in campo nucleare. Terza considerazione: in Italia la maggioranza dei cittadini non vuole che si costruiscano le centrali. Motivo principale? Si teme il disastro. Opinione lecita e comprensibilissima, se non fosse che ai nostri confini, ovunque ci si giri a guardare, siamo circondati da centrali nucleari. In caso di incidenti, radiazioni e sostanze nocive non si fermerebbero alle dogane per altro dismesse. No, saremmo parte in causa, proprio come chi le centrali le ha sul proprio territorio. I quotidiani ci dicono che nella Pianura Padana sono state rinvenute risibili tracce di radiazioni dovute all’incidente giapponese. Ecco, pensiamo se un analogo disastro avvenisse in Francia, che di centrali ne ha più di cinquanta.

Non intendo dilungarmi su ragionamenti di carattere economico, sul fatto che dipendiamo per milioni di euro dagli impianti presenti in altri Stati europei e nordafricani. Sarebbe un discorso troppo lungo. Le opinioni sul nucleare sono diverse, trasversali e molteplici. Rischi e margini di convenienza hanno confini labili, labilissimi. E’ una questione di coscienza, quasi di “fede”. L’importante è tenere presente la frase con cui si apre questo numero della Sala Ovale: se i primitivi avessero temuto il fuoco dopo il primo incendio, ora saremmo senza luce.

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