La sala Ovale: il razzismo

1 settembre 2010

I buu allo stadio sono ormai un triste rituale, è sufficiente che scenda in campo un giocatore di colore per scatenare commenti ironici e fischi infami di tifosi che si accomodano in curva con tutt’altra volontà che quella di gustarsi, divertendosi, una partita di calcio. E’ l’ultima frontiera del “razzismo popolare”, dell’intolleranza fine a se stessa, frutto della semplice ignoranza. Si potrebbe dire, facendo i filosofi, che il razzismo è vecchio di millenni, nato con l’uomo. Differenza di pelle, di etnia, di razza, hanno portato i civili umani a farsi guerre, a scannarsi in nome di una presunta superiorità dell’uno sull’altro. E il tutto semplicemente perché uno è nero e l’altro è bianco. Va detto che oggi, però, questo termine viene usato troppo spesso, con abusi strumentali che nulla hanno a che vedere con lo schiavismo dei secoli passati.
E’ di questi giorni, infatti, il caso dei Rom espulsi dalla Francia in modo coatto. Immediate sono state le reazioni dell’Onu (che ormai parla più che lavorare) e della Chiesa Cattolica, la quale si è spinta a paragoni impropri, sostenendo che tra l’Olocausto hitleriano e le misure di Sarkozy non c’è differenza alcuna. In realtà, basterebbe dare una rapida spulciata ai regolamenti comunitari, i quali legittimano la Francia (ma qualunque altro Stato dell’Unione Europea) a dichiarare “persone non gradite” coloro che non sono in regola con i documenti. Il Vaticano dovrebbe saperlo. Solo dopo l’inferno della seconda guerra mondiale, dopo i milioni di esseri umani finiti nei forni crematori solo perché “di razza inferiore”, solo con l’avvio della decolonizzazione dei Paesi afro-asiatici, il razzismo è stato visto come qualcosa di orripilante, da cancellare dalla memoria e dal proprio modo di pensare l’altro, lo xenos di greca memoria. Rapidamente, ciò che prima faceva parte del costume popolare quotidiano, ciò che rappresentava una tranquilla ovvietà indiscussa, diventava aberrante. Un’evoluzione che ha cambiato, un po’ ipocritamente, anche termini della lingua comune. E così è diventato brutto definire “negro” l’uomo dalla pelle nera, benché questo sia il termine corretto, preferendo un più accettabile “nero” o “di colore”, come se i bianchi, i gialli e i rossi fossero trasparenti.  Un’ipocrisia dilagante, in piena sintonia con il perbenismo della nostra società, cosiddetta moderna.
Il problema c’è, ed è grande, e certamente non va sottovalutato.  Però il cambiamento nel modo di pensare non può essere repentino: sarebbe falso e imposto. Deve cambiare il modo di rapportarsi agli altri, a coloro che ci sembrano diversi, senza temerli e senza irriderli. E questo nulla a che vedere con i problemi connessi all’illegalità: chi sbaglia, deve pagare. Sia esso algerino, slavo, nigeriano o italiano. Per cambiare, bisogna iniziare dal proprio borgo, dal proprio paese, dalla propria città. E magari si scoprirà che, dietro un caftano o un turbante sikh, si celano le stesse passioni e le stesse idee. Provarci, non costa nulla.

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